Siamo alla seconda settimana di campagna elettorale dopo che le dimissioni di Mario Draghi, avvenute il 21 luglio a seguito della decisone di Lega, Forza Italia e Movimento 5 stelle di non partecipare al voto in Sentato per confermare la fiducia al premier, hanno portato al decreto di scioglimento anticipato delle camere e all’indizione delle elezioni il 25 settembre.
Due settimane che sono state caratterizzate prevalentemente dalla dinamica di accordi politici volti alla costituzione di alleanze elettorali e conseguente ripartizione dei collegi. Ad oggi il quadro vede un centro destra compatto, con i principali partiti che hanno trovato formalmente una quadra immediata dal punto di vista dell’alleanza elettorale, il Movimento 5 stelle intenzionato a correre da solo, cosi come Italia Viva di Matteo Renzi e il centro sinistra con il Pd che faticosamente sta cercando di costruire una coalizione che tenga dentro Azione, il partito di Carlo Calenda, Europa Verde e Sinistra Italiana.
Il tema della costruzione delle alleanze elettorali che sta di fatto monopolizzando il dibattito politico non è affatto secondario in virtù della legge elettorale con cui si andrà a votare, il Rosatellum, unitamente alla riduzione del numero di parlamentari avvenuta con l’approvazione, nella legislatura appena conclusa, della legge costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari, da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori elettivi.
Per capire meglio è necessario analizzare il funzionamento del Rosatellum, una legge elettorale che prevede un sistema misto maggioritario e proporzionale e che ci accompagnerà in questa campagna elettorale 2022.
Nello specifico alla Camera i Deputati saranno eletti attraverso:
I 200 senatori saranno invece eletti attraverso
La legge prevede inoltre delle soglie di sbarramento per accedere alla ripartizione dei seggi: il 3% per i partiti non in coalizione e il 10% per le coalizioni. Se un partito all’interno di una coalizione supera l’1% ma non raggiunge il 3% pur non ottenendo seggi contribuisce con i suoi voti alla ripartizione dei seggi tra i partiti della coalizione.
Il Rosatellum ha inoltre un’ulteriore caratteristica dal punto di vista delle modalità di espressione del voto. Gli elettori infatti avranno a disposizione un’unica scheda per votare i candidati nei collegi uninominali e i partiti nel riparto proporzionale, associati al candidato nel collegio uninominale, e non potranno fare voto disgiunto tra uninominale e proporzionale pena l’annullamento del voto.
Proprio per la presenza dei collegi uninominali, dove chi prende un voto in più vince, e l’impossibilità di effettuare voto disgiunto, il Rosatellum impone di fatto la costituzione di coalizioni elettorali tra i partiti che saranno i principali protagonisti, con i loro leader, nel raccogliere i voti. Difficilmente, infatti, un elettorale intenzionato a dare il proprio voto a un determinato partito voterà un candidato di un altro schieramento nel collegio uninominale precludendosi la possibilità di dare un voto al suo partito di riferimento.
Una riprova di questo è data dalle elezioni del 2018, che si svolsero sempre con il Rosatellum, dove il Movimento 5 stelle pur non coalizzandosi con nessuno riuscì a vincere nel sud Italia la quasi totalità dei collegi uninominali, con candidati pressoché sconosciuti e in molti casi alla prima esperienza parlamentare, impendendo di fatto alla coalizione di centro destra di avere i numeri necessari a governare nonostante fosse risultata nel complesso più votata.
E veniamo quindi al dibattito di questi giorni: la costruzione delle coalizioni elettorali. Forte dei sondaggi che la danno costantemente intorno al 45-46% nelle intenzioni di voto, la coalizione di centro destra non ha faticato a trovare un accordo sull’alleanza per iniziare da subito una narrazione incentrata sul programma elettorale, tenendo sotto traccia la contesa sulla ridistribuzione interna dei collegi.
È recente uno studio dell’Istituto Cattaneo che attribuisce il 70% dei collegi uninominali al centro destra e una conseguente maggioranza sia alla Camera che al Senato.
Il PD invece è ancora impantanato nella costruzione di una coalizione che, numeri alla mano, sia in grado di contendere il risultato elettorale al centro destra. Con il venir meno del campo largo, che prevedeva un’alleanza strutturale tra Movimento 5 stelle e Pd, le difficoltà che Enrico Letta sta incontrando in queste settimane sono dettate dalla profonda diversità di vedute dei partiti con cui sta cercando di stringere un’alleanza: Azione di Carlo Calenda (che dovrebbe intercettare voti moderati o in uscita da Forza Italia), l’Alleanza Sinistra Verde di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni e il neonato partito Impegno Civico di Luigi Di Maio e Bruno Tabacci.
Diversità che non riguardano solo gli accordi elettorali su candidature e ripartizioni dei seggi ma hanno una natura più profonda e che attiene alla linea politica e programmatica, nello specifico diametralmente opposta tra Azione e l’Alleanza Sinistra Verde. Un contesto che se anche dovesse portare alla costituzione di una coazione elettorale, proprio per la diversità di vedute dei partiti e dei loro leader, presterà il fianco al centro destra su diversi temi con dichiarazioni nettamente in contrasto tra loro.
Questa del resto è una caratteristica ricorrente nel contesto italiano dal 1994 in poi. La destra infatti è quasi sempre riuscita con relativa facilità a costruire e comunicare una coalizione coesa, anche in virtù di una sostanziale uniformità di linea politica su temi importanti. Dall’altra parte la necessità di allargare il più possibile il campo porta ad avere al proprio interno posizioni molto diverse tra loro che alla fine sfociano o in crisi di governo, come nel 1996 e nel 2006, o, come in questi giorni, a lunghi tiri e molla che indubbiamente concedono un vantaggio agli avversari.
In tutto questo il Movimento 5 stelle rischia di recitare al contrario il ruolo ricoperto nel 2018. Se allora infatti il suo exploit, soprattuto al Sud, impedì al centro destra unito di vincere le elezioni e formare il governo, questa volta potrebbe consegnarli la vittoria in virtù della mancata alleanza con il PD e perché la linea politica assunta da Giuseppe Conte potrebbe intercettare con più facilità dei voti provenienti da sinistra.
Visto il contesto parlare di campagna elettorale e della comunicazione politica dei differenti partiti è ancora prematuro. Se non prima, il quadro si chiarirà definitivamente il 14 agosto, data ultima per presentare le liste e dichiarare le coalizioni. Da quel momento in poi lo scontro si sposterà esclusivamente su temi, proposte e visioni. Sarà una campagna elettorale breve e anomala, la prima nella storia italiana che si svolgerà in estate, e ci sarà poco tempo per i partiti per far sedimentare messaggi e proposte.
Ai nastri di partenza, considerando i sondaggi e le difficoltà del centro sinistra, l’esito appare scontato ma dare la storia per già scritta sarebbe un errore. Le rilevazioni stimano che al momento il 40% degli elettori non sa ancora se andare a votare e a chi dare il proprio voto, molto dipenderà quindi dalla capacità dei partiti di intercettare questa fetta di elettori con una proposta chiara e in grado di scaldare il cuore.
Vedremo se alla fine la scelta del Partito Democratico di costruire un’alleanza eterogenea pagherà e in cosa si concretizzerà in termini di messaggio politico.
Vi è un ultimo punto che vale la pena analizzare. La scelta di concentrarsi sull’immediato e provare a vincere in tutti i modi una contesa elettorale è legittima, bisognerebbe però considerare a che prezzo questo potrebbe avvenire.
Le elezioni si vincono e si perdono (è la democrazia, bellezza) alle volte però, analizzando il contesto e le condizioni date, la classe politica dovrebbe avere la forza di ragionare in prospettiva, con uno sguardo più tarato sul medio e lungo termine.
Andare da soli alle elezioni, soprattutto con questa legge elettorale, nel 99% dei casi porta sicuramente a una sconfitta ma consente di strutturare una linea politica chiara e riconoscibile che non sia annacquata dalle richieste o dalle posizioni discordanti dei propri alleati. Una strategia che nell’immediato potrebbe sembrare autolesionista ma che se portata avanti con coraggio e coerenza può consentire a un partito di crescere e rafforzare il proprio posizionamento mettendosi nelle migliori condizioni per poter svolgere un ruolo di catalizzatore di voti e forza trainante in vista di contese elettorali future.
Si può pensare quello che si vuole di Giorgia Meloni e del suo partito ma stando su una sfera prettamente analitica il quasi 25% che al momento registra nei sondaggi non nasce oggi. È il risultato della decisone della leader di Fratelli d’Italia di non entrare a far parte del governo nel 2013 e in quelli che si sono succeduti dal 2018 a oggi.
Si dirà che stare all’opposizione paga sempre di più dal punto di vista elettorale, ma è anche vero che oggi gli elettori riconoscono a Giorgia Meloni una coerenza di fondo. E non è un caso che negli ultimi anni in cui i principali leader, e i lori partiti, hanno vissuto dal punto di vista dei consensi crescite vertiginose e altrettanti repentini crolli, lei e il suo partito hanno visto costantemente crescere i propri consensi fino a diventare il partito trainante del centro destra in queste elezioni.
A sinistra invece è come se ci fosse il timore di presentare una programma realmente riformista, fatto di proposte anche polarizzanti ma chiare, e avere il coraggio di difenderle fino in fondo, anche a costo di pagarne il prezzo nell’immediato ma con l’ambizione di connettersi nel profondo con l’elettorato italiano e andare incontro alle nuove e nascenti necessità che gli anni 20 di questo secolo hanno fatto emergere.
L’Italia, più di altri Paesi Europei, sta subendo e subirà gli effetti della pandemia e della guerra. Le disuguaglianze sociali sono sempre più nette così come il livello di impoverimento delle famiglie italiane. A questo si aggiunga un problema strutturale che caratterizza il nostro mercato del lavoro, con stipendi tra i più bassi d’Europa e un tasso di disoccupazione al 40%, con una difficoltà evidente per i giovani e meno giovani di avere una stabilità economica e la necessaria sicurezza nel costruirsi una famiglia.
Pier Luigi Bersani recentemente ha definito la sinistra
“Un fiore di campo che nasce spontaneo e resiste a tutte le intemperie”
È forse è uno slancio troppo poetico ma probabilmente c’è molto più spazio di quello che si possa immaginare per un moderno partito socialista/riformista.
A patto però che sappia dire con chiarezza chi è.